"Gli hanno amputato ancora un po' di piede (una prima parziale amputazione qualche tempo fa, per via di un'infezione inevitabile, date le condizioni). Sembra difficile fermare la cancrena. Comunque lo tengono sedato per la maggior parte del tempo, ogni tanto lo svegliano così che possa salutare moglie e figli...Dal vetro...""Dal vetro..." mi fa subito pensare a una camera sterile dove per forza dev'essere ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell'Ospedale di Padova, vista l'ustione gravissima sulla maggior parte del corpo, e il rischio conseguente di infezioni.
Ma mi fa pensare anche agli astronauti, questo "Dal vetro...".
Quelli che appaiono ai familiari, in certi film sugli astronauti, dove sul vetro di uno schermo appare la loro tremolante immagine dopo aver viaggiato per chilometri e chilometri attraverso lo spazio-tempo che li separa dalla Terra. Quel vetro che li fa vivi come memoria per la famiglia di ciò che sono e forse non sono già più.
Come ectoplasmi evocati appaiono, parlano e sorridono alla famiglia che li attende e li ama per rassicurare che sì, ci sono ancora, anche se non ci sono.
Astronauti che sono della Terra senza però calpestarla più, senza calpestare più nemmeno la sterile navicella spaziale dove vivono nutrendosi di cibi che non sono cibo e però sorridono sorrisi tremolanti e vaghi che sono loro e non sono più loro.
Sospesi in un punto lontano del cosmo che forse un giorno torneranno sulla Terra o forse si perderanno nello spazio interstellare.
O forse, anche dopo che la navicella sarà nuovamente ammarata sulla superficie di qualche terrestre mare esotico, ne usciranno come ri-partoriti da acque amniotiche che li restituirà alle famiglie nuovi come non sono mai stati neanche prima di nascere perché nati due volte, come certi mitologici esseri partoriti più volte mai uguali a se stessi.
In questi giorni di ponti che crollano, di famiglie sloggiate da casa loro per venir trasferite come pacchi senza colpa ma puniti lo stesso, di migranti sospesi in una capsula nel porto dalla quale non possono scendere per essere ri-partoriti alla nuova immaginata vita, ripensare a Marian Bratu mi aiuta a rimanere sulle tragedie vicine, così da avere almeno un metro di misura del collasso di un mondo che sembra sempre lo stesso e non lo è già più.
Un tempo, quello in cui vivo, dove nulla pare più reggere a nulla, dove tutto o crolla o sopravvive in condizioni di sospensione spazio-temporale.
Come fosse tutto lì, sul limitare di un precipizio dal quale forse ci si potrà salvare e forse no.
E mi pare di poter cogliere il senso di quel principio per cui nulla di ciò che vive è stabile, tutto passa, tutto si trasforma e ci trasforma, quello per cui nessuno rimane mai davvero uguale al se stesso che pensava un giorno di essere e nonostante le migliori e più convinte intenzioni.
Pare comunque che in generale Marian Bratu si stia riprendendo, stando a quel che dicono su Il Mattino di Padova lo scorso 13 agosto 2018.
Ma rimane gravissimo, e sospeso in quella capsula dove vive fra una sedazione e l'altra.
Lo penso, penso alla sua famiglia, penso ai suoi sogni prima che tutto quel che gli è successo lo trasportasse d'urgenza nella capsula asettica dove si trova, quella dove di tanto in tanto lo svegliano perché saluti la famiglia per poi tornare a sedarlo.
Chissà dove vive mentre dorme come un astronauta separato dal mondo da un vetro come se fossero chilometri e chilometri.
Gli invio inutili (forse) sogni lenitivi, sogni guaritivi, sogni che aiutino il suo corpo a ripararsi e al suo spirito di guarire la ferita profonda che il mondo del bisogno di guadagnarsi il pane gli ha così terribilmente inferto.
Sospesi lui e tutti noi, i diciottini, i ricoverati dal crollo e gli sfollati da una casa amata che faranno crollare e io stessa, sospesa fra un prima e un dopo, fra un di quà e un di là, fra un mondo di sopra e uno di sotto, fra i sogni e il dolore della caduta delle illusioni, fra la Terra e l'infinito cosmico.
Come tante capsule viaggianti nello spazio, forse ognuno trova il modo di vivere rinchiuso nel proprio bozzolo protettivo, sospeso ognuno a modo suo in attesa di un risveglio che forse verrà e nel quale, se verrà, ci scopriremo in ogni caso molto diversi da com'eravamo quando pensavamo di essere eterni, invincibili, convinti che "volere è potere", tranne poi quell'attimo fatale, dal quale se usciamo vivi ci infiliamo in una capsula asettica dove poter sopravvivere senza più illusioni sul "volere è potere".
Torno nella mia capsula del tempo con la mia copertina preferita, quella asettica ma non innocua di Possessione, di Antonia S. Byatt, quella con l'effige ectoplasmatica di un volto ottocentesco di un libro che sto rileggendo per la quarta volta e mai come ora mi è sembrato così vivo e appassionante.
(quella che rilegge oggi non è la stessa che l'ha letto per la prima volta anni fa: fra quel giorno e ora, molte altre letture e molti altri eventi mi hanno cambiata, indubbiamente arricchendo la mia capacità di comprendere tutti i misteriosi sottotesti disseminati nel libro dalla Byatt e affinando la mia convinzione che la lettura è una bellissima capsula del tempo, senza vetro però...)
troppe parole contraddittorie .
RispondiEliminaforse é solo la manifesta incapacita di leggere il presente ?
quel senso di sospensione...
é forse questo il momento di studiare cio che hai creduto fosse possibile interpretare arbitrariamente ?
questi sono tempi senza alternative . o studi oppure scappi da chi inevitabilmente ti fagociterà ...