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martedì 15 febbraio 2022

I collaboratori

 Per gli antifascisti della domenica:

Mario Draghi: "The unvaccinated are not part of our society."

Una delle cose che hanno reso possibile il nazismo fu la sollecita (o magari indolente) collaborazione dei tedeschi comuni, della gente normale, quella che coltivava l'antisemitismo convinta che gli ebrei fossero oggettivamente dei parassiti subumani (che portavan malattie), e che la colpa della sconfitta nella prima guerra mondiale, e della grave crisi economica che ne seguì, fosse una loro esclusiva responsabilità. Secondo i documenti riportati nel libro in lettura, I volonterosi carnefici di Hitler, lo credeva (e agiva in base a questa credenza), una larga maggioranza della popolazione tedesca di allora.

Una differenza fra allora e oggi, c'é: allora Hitler andò al potere vincendo le elezioni, oggi ci governano persone non elette da nessuno, in un Parlamento che non rappresenta più in alcun modo il Paese: i parlamentari eletti nel 2018 sono oggi, tranne qualche raro caso di onestà intellettuale, che infatti è oggi impedito ad accedere lui stesso al Parlamento, i più entusiasti sostenitori di un Governo che accetta la dichiarazione sopra senza emettere un bah, un mah, un vago sospiro pubblico di disagio. Chi tace, è sempre complice.

Chi da oggi userà ancora il certificato verde, a qualunque titolo lo abbia ottenuto, per attività diverse da quelle della mera sussistenza concesse ai reietti, quelli dichiarati dal capo di Governo quali "not part of our society", non potrà dirsi innocente.

venerdì 1 gennaio 2021

La dichiarazione di Freud

L’11 maggio 1933 i giornali riportarono la notizia del grande falò di Berlino nel quale erano stati arsi i libri di tutti gli autori ebrei e di molti autori non ebrei, ma antinazisti. La manifestazione nazista, conclusa con un discorso di Goebbels, si era svolta secondo un rituale: prima di buttare nel fuoco i libri di un autore o di un gruppo di autori veniva fatta - da uno studente o da un membro delle SA - una specifica, una dichiarazione. Quella che precedette il rogo dei libri di Freud proclamava: 

“Contro l’esaltazione della vita sessuale distruttrice dell’anima - e in nome della nobiltà dello spirito umano - offro alle fiamme gli scritti di un tale Sigmund Freud”.

In ottobre Freud scriveva a Zweig (Arnold n.d.b.): 

“Ho avuto una trombosi coronarica, ma sono ancora vivo…”

Nel dicembre del 1937 Freud aveva scritto:

“Il governo è cambiato, ma la gente è la stessa, totalmente all’unisono con i fratelli del Reich nel culto dell’antisemitismo. Ci stringono sempre più alla gola, anche se ancora non ci strangolano”

L’11 maggio 1938 Freud scrisse nel diario:

“Finis Austriae. Il 13 Anschluss alla Germania. Il giorno dopo Hitler a Vienna”.

Roth, in La Cripta dei cappuccini, narra che l’ultimo dei Trotta, quando i nazisti arrivano a Vienna, si rifugia tra le tombe della famosa cripta imperiale alla ricerca di una pace che sia l’ultimo momento di una fuga senza fine.
Se ai tedeschi furono necessari cinque anni, agli austriaci bastarono cinque giorni per diventare altrettanto fanatici e violenti.

Scrive Carl Zuckmayer che era casualmente a Vienna in quei giorni:

“L’inferno ha aperto le sue porte e ha dato via libera ai suoi spiriti più bassi, più ributtanti e più impuri. La città si è trasformata in un incubo, in una visione degna di Hieronymus Bosch, e l’aria è piena delle grida incessanti, selvagge, isteriche di uomini e donne. Tutti costoro non hanno più faccia, assomigliano piuttosto a ceffi stravolti: alcuni dall’ansia, altri dalla delusione, altri ancora da un trionfo selvaggio e pieno d’odio”.

Le scene di violenza e brutalità nei confronti degli ebrei durarono giorni e giorni. Molti furono assassinati. Altri, come Egon Friedell, alla vista dei nemici, si buttarono dalla finestra. Nella primavera ben cinquecento ebrei austriaci scelsero il suicidio. 

In casa Freud la polizia fece irruzione più volte. Non toccarono il vecchio professore, ma Martin fu convocato ripetutamente al quartiere generale della Gestapo e Anna fu arrestata e trattenuta per un intero giorno. Al suo ritorno a sera esplose l’angoscia della famiglia. Nel diario Freud scrisse solo: “Anna bei Gestapo”. In un primo tempo resistette alle pressioni di coloro che volevano emigrasse: vecchio e malato, voleva morire a Vienna. Alla fine le pressioni di amici e conoscenti prevalsero: arrivò la notizia che Londra aveva dato il permesso, ma passò tutto il mese di aprile perché il visto di espatrio fosse concesso.

Prima di partire gli fu intimato di firmare una dichiarazione in cui, secondo Jones (neurologo e biografo di Freud), era scritto:

“Io, il prof. Freud, qui dichiaro che dopo l’annessione dell’Austria al Reich tedesco sono stato trattato dalle autorità tedesche e in particolare dalla Gestapo con tutto il rispetto e la considerazione dovuti alla mia fama di scienziato, che ho potuto vivere e lavorare in piena libertà, che ho potuto continuare a svolgere le mie attività nel modo che più desideravo, che da questo punto di vista ho trovato pieno appoggio di persone interessate e che non ho il minimo motivo di lamentarmi”.

Firmò il testo che gli era stato preparato e chiese di aggiungere una frase:

                “Posso vivamente raccomandare la Gestapo a chicchessia”

- Da La Grande Vienna ebraica - di Riccardo Calimani -  Bollati Boringhieri - 2020

 

Quando non resta più una sola possibilità di intendersi col nemico, l'ironia può ancora colpirlo senza che se ne avveda. 

La violenza del potere è stupida per definizione, per questo è impossibile sperare di salvarsi dalla tirannia in altro modo che con la fuga.

lunedì 8 luglio 2019

Il Sermone

"...Abbassò il capo e rimase come assorto per un momento; poi, alzando di nuovo il viso verso di loro, lasciò trasparire negli occhi una gioia profonda, mentre gridava con un entusiasmo che era più che umano: "Ma, oh! Compagni! A tribordo di ogni dolore c'é una gioia sicura, e la sommità di questa gioia è più alta di quanto non sia profondo l'abisso del dolore. Non è forse più alto il pomo dell'albero di maestra di quanto sia basso il paramezzale della chiglia? Gioia a colui...un'altissima e intima gioia...a colui che, ai superbi dèi e commodori di questa terra, oppone sempre la propria inesorabile verità. Gioia a colui che si regge sulle proprie forti braccia anche quando la nave di questo vile e perfido mondo affonda sotto di lui. Gioia a colui che persegue la verità senza dare quartiere, e uccide, brucia e distrugge ogni peccato, quand'anche debba stanarlo di sotto le toghe dei senatori e dei giudici..."
 Da Moby Dick di H. Melville - pagg 71/72 Ed Newton Compton - I Minimammut


Incredibile: ogni volta che rileggo un classico realizzo più di sempre quanto sia davvero già stato detto tutto e quanto, per questo, è tempo di impegnarsi nella sfida, già persa da tutti, di leggere tutto. 

mercoledì 26 giugno 2019

L'incivilimento del genere umano


Scrivere bene vuol quasi già dire pensare bene, e da questo all'agire anche bene il passo è breve. Tutto l'incivilimento del genere umano - come si può bene accertare - deriva dallo spirito della letteratura, e già per gli antichi educatori del popolo la bella parola valeva come matrice della buona azione.*

Dalla periferia dell'universo, è tutto...

*da Considerazioni di un impolitico - Th. Mann - 1918 - Adelphi Ed. pag. 116

lunedì 8 aprile 2019

Viaggio ai Tropici, senza fare un passo

"...succedeva in un batter d'occhio, che è il solo modo di succedere delle cose importanti. Dalla sera alla mattina tutti i valori preconcetti di Grover furono buttati a mare. All'improvviso, così, egli cessò di muoversi come si muovono gli altri. Serrò i freni, tenendo acceso il motore. Se una volta, come gli altri, aveva creduto che occorre andare da qualche parte, adesso sapeva che qualche parte è dovunque e perciò anche qui, e allora perché muoversi? Perché non parcheggiare la macchina e tenere acceso il motore? Intanto la terra gira e Grover sapeva che gira e sapeva anche di girare con lei. La terra va da qualche parte? Senza dubbio Grover si deve essere fatto questa domanda e senza dubbio si deve essere convinto che la terra non va da qualche parte. Chi dunque ha detto che noi dobbiamo andare da qualche parte? Grover chiedeva a questo o a quello dove eran diretti e la cosa strana è che, pur essendo tutti diretti alla propria individuale destinazione nessuno si era mai fermato a riflettere che la sola inevitabile destinazione per tutti eguale è la tomba. Di ciò era perplesso Grover perché nessuno poteva convincerlo che la morte non è una certezza, mentre chiunque può convincere tutti gli altri che ogni altra destinazione è un'incertezza. Convinto della certezza assoluta della morte Grover all'improvviso si fece vivo in modo terribile e traboccante. Per la prima volta in vita sua cominciò a vivere..."
Da Tropico del Capricorno, di H. Miller

Perché mi sono presa la briga di riportare questo stralcio del libro?
Perché mi chiamo Grover, Ross Grover.
O meglio, perché sto rileggendo a distanza di anni questo libro e mi accorgo che, esattamente come la prima volta che lo lessi, mi trovo nella stessa fase di Grover: ferma, disinteressata a qualunque movimento verso qualunque destinazione, e torno a scoprirmi terribilmente viva proprio ferma qui, con il freno a mano tirato e il motore acceso.
Non desidero andare da nessuna parte, la terra continua a girare e io
"Non ho soldi, né risorse, né speranze." (da Tropico del Cancro, sempre H. Miller)
E mi sento la donna più felice del mondo. (semi cit.)

Fra le pagine di Tropico del Capricorno ho trovato un grappolo di fiori di gelsomino secchi.
Mi ricordano esattamente dov'ero l'ultima volta che leggevo questo libro: su una chaise longue, sotto a un gazebo estivo pervaso dal profumo dei gelsomini in fiore. Al di là dell'ombra, il sole cuoceva l'erba del prato, era un giugno caldissimo e la voce della Callas insisteva da giorni con la Casta Diva. 
Il tempo si era fermato, tutto si era come sospeso, tanto valeva starmene ferma a leggere, la terra continuava a girare



In Tropico del Cancro ho ritrovato invece uno scontrino di pedaggio della tangenziale di Napoli, leggo a fatica l'ora, forse 12.15, e il costo del pedaggio è sbiadito, forse c'é un 7, ma cosa prima o cosa dopo rimane sfocato dal tempo.
Però ricordo una salita al Vesuvio in auto: un amico di Napoli volle portarmici per farmi almeno intuire cos'era per lui fare escursioni fra le boscaglie lungo la strada che porta sù, vicino alla caldera. 
Ricordo che mi sentivo particolarmente attratta dal pensiero di precipitarmi giù, dentro al buco, mi continuavo a chiedere chissà cosa c'é lì dentro, lì in fondo, lì sotto, ed era uno di quei pensieri che danno le vertigini solo a pensarli...


mercoledì 22 agosto 2018

Sospesi

Mi arrivano notizie di seconda mano su Marian Bratu, uno degli operai delle Acciaierie Venete rimasto ustionato sul 90% del corpo a seguito della caduta della colata d'acciaio fuso lo scorso maggio.

"Gli hanno amputato ancora un po' di piede (una prima parziale amputazione qualche tempo fa, per via di un'infezione inevitabile, date le condizioni). Sembra difficile fermare la cancrena. Comunque lo tengono sedato per la maggior parte del tempo, ogni tanto lo svegliano così che possa salutare moglie e figli...Dal vetro..."
"Dal vetro..." mi fa subito pensare a una camera sterile dove per forza dev'essere ricoverato nel reparto di terapia intensiva dell'Ospedale di Padova, vista l'ustione gravissima sulla maggior parte del corpo, e il rischio conseguente di infezioni. 

Ma mi fa pensare anche agli astronauti, questo "Dal vetro...". 
Quelli che appaiono ai familiari, in certi film sugli astronauti, dove sul vetro di uno schermo appare la loro tremolante immagine dopo aver viaggiato per chilometri e chilometri attraverso lo spazio-tempo che li separa dalla Terra. Quel vetro che li fa vivi come memoria per la famiglia di ciò che sono e forse non sono già più. 
Come ectoplasmi evocati appaiono, parlano e sorridono alla famiglia che li attende e li ama per rassicurare che sì, ci sono ancora, anche se non ci sono.
Astronauti che sono della Terra senza però calpestarla più, senza calpestare più nemmeno la sterile navicella spaziale dove vivono nutrendosi di cibi che non sono cibo e però sorridono sorrisi tremolanti e vaghi che sono loro e non sono più loro. 

Sospesi in un punto lontano del cosmo che forse un giorno torneranno sulla Terra o forse si perderanno nello spazio interstellare.
O forse, anche dopo che la navicella sarà nuovamente ammarata sulla superficie di qualche terrestre mare esotico, ne usciranno come ri-partoriti da acque amniotiche che li restituirà alle famiglie nuovi come non sono mai stati neanche prima di nascere perché nati due volte, come certi mitologici esseri partoriti più volte mai uguali a se stessi.

In questi giorni di ponti che crollano, di famiglie sloggiate da casa loro per venir trasferite come pacchi senza colpa ma puniti lo stesso, di migranti sospesi in una capsula nel porto dalla quale non possono scendere per essere ri-partoriti alla nuova immaginata vita, ripensare a Marian Bratu mi aiuta a rimanere sulle tragedie vicine, così da avere almeno un metro di misura del collasso di un mondo che sembra sempre lo stesso e non lo è già più.

Un tempo, quello in cui vivo, dove nulla pare più reggere a nulla, dove tutto o crolla o sopravvive in condizioni di sospensione spazio-temporale.
Come fosse tutto lì, sul limitare di un precipizio dal quale forse ci si potrà salvare e forse no.
E mi pare di poter cogliere il senso di quel principio per cui nulla di ciò che vive è stabile, tutto passa, tutto si trasforma e ci trasforma, quello per cui nessuno rimane mai davvero uguale al se stesso che pensava un giorno di essere e nonostante le migliori e più convinte intenzioni.

Pare comunque che in generale Marian Bratu si stia riprendendo, stando a quel che dicono su Il Mattino di Padova lo scorso 13 agosto 2018. 
Ma rimane gravissimo, e sospeso in quella capsula dove vive fra una sedazione e l'altra.

Lo penso, penso alla sua famiglia, penso ai suoi sogni prima che tutto quel che gli è successo lo trasportasse d'urgenza nella capsula asettica dove si trova, quella dove di tanto in tanto lo svegliano perché saluti la famiglia per poi tornare a sedarlo.

Chissà dove vive mentre dorme come un astronauta separato dal mondo da un vetro come se fossero chilometri e chilometri.
Gli invio inutili (forse) sogni lenitivi, sogni guaritivi, sogni che aiutino il suo corpo a ripararsi e al suo spirito di guarire la ferita profonda che il mondo del bisogno di guadagnarsi il pane gli ha così terribilmente inferto.

Sospesi lui e tutti noi, i diciottini, i ricoverati dal crollo e gli sfollati da una casa amata che faranno crollare e io stessa, sospesa fra un prima e un dopo, fra un di quà e un di là, fra un mondo di sopra e uno di sotto, fra i sogni e il dolore della caduta delle illusioni, fra la Terra e l'infinito cosmico.

Come tante capsule viaggianti nello spazio, forse ognuno trova il modo di vivere rinchiuso nel proprio bozzolo protettivo, sospeso ognuno a modo suo in attesa di un risveglio che forse verrà e nel quale, se verrà, ci scopriremo in ogni caso molto diversi da com'eravamo quando pensavamo di essere eterni, invincibili, convinti che "volere è potere", tranne poi quell'attimo fatale, dal quale se usciamo vivi ci infiliamo in una capsula asettica dove poter sopravvivere senza più illusioni sul "volere è potere".

Torno nella mia capsula del tempo con la mia copertina preferita, quella asettica ma non innocua di Possessione, di Antonia S. Byatt, quella con l'effige ectoplasmatica di un volto ottocentesco di un libro che sto rileggendo per la quarta volta e mai come ora mi è sembrato così vivo e appassionante.
(quella che rilegge oggi non è la stessa che l'ha letto per la prima volta anni fa: fra quel giorno e ora, molte altre letture e molti altri eventi mi hanno cambiata, indubbiamente arricchendo la mia capacità di comprendere tutti i misteriosi sottotesti disseminati nel libro dalla Byatt e affinando la mia convinzione che la lettura è una bellissima capsula del tempo, senza vetro però...)  

venerdì 2 marzo 2018

Neti Neti

Dopo una settimana iniziata con il gelido vento Burian che si va a chiudere con una nevicata che sta ancora bloccando sui binari e sulle strade l'Italia intera, ecco cosa leggo stamattina (da Diario berlinese - Inverno 1932-1933, di Christofer Isherwood in Addio a Berlino):
Stanotte, per la prima volta quest'inverno, fa molto freddo. Il gelo improvviso serra la città in un silenzio assoluto, come quello di un torrido mezzogiorno estivo. Col freddo Berlino sembra proprio contrarsi riducendosi a un minuscolo punto nero, a stento più grande di centinaia di altri puntini, isolati e difficilida individuare, sparsi sull'immensa carta geografica dell'Europa. Fuori, nella notte, oltre gli ultimi isolati con i casamenti di calcestruzzo appena costruiti, lì dove le strade finiscono in piccoli orti coperti di ghiaccio, si apre la pianura prussiana. Si sente che è tutta attorno a noi, stanotte; scivola lentamente sulla città, come l'immensa e desolata distesa di un oceano sconosciuto - costellata di boschi spogli e laghi gelati e villaggetti che si ricordano solo come i bizzarri nomi dei campi di battaglia di guerre quasi dimenticate. Berlino è uno scheletro dolorante per il freddo: è il mio scheletro indolenzito. Sento nelle ossa il dolore acuto che il ghiaccio infligge alle travi della sopraelevata, al ferro delle ringhiere dei balconi, ai ponti, alle rotaie dei tram, ai lampioni, alle latrine. Il ferro pulsa e si ritrae, la pietra e i mattoni soffrono di un dolore sordo, l'intonaco è inebetito.
Sarà che non è Berlino, ma questa imbiancata conferisce al quartiere di villette (tutte con ulivo d'ordinanza) e bifamiliari dove abito una nuova effimera personalità. Tutt'intorno, di fronte, nel piccolo parco giochi a un paio di minuti a piedi, si può passeggiare senza incontrare un'auto per almeno 10', solo marciapiedi, case, qualche condominio alto al più un paio di piani, qualche alberello decorativo che non getta ombra d'estate neanche ad ubriacarlo.
Si possono però affondare i piedi nella neve camminando direttamente sul prato spoglio davanti casa, sensazione che ieri sera, a zonzo con la mia vicina, ha provocato in noi degli istintivi urletti di gioia infantile: chi se la ricordava più quella sensazione degli scarponi che affondano nella neve. 
E che bello, però...

Niente ringhiere con il dolore acuto inflitto dal ghiaccio, da queste parti. Nemmeno l'intonaco si inebetisce ormai, coperti i muri esterni delle case odierne da cappotti anti-gelo come i cani, quelli col paltoncino trascinati a fare pipì di lusso che lasciano orrende chiazze gialle nella neve immacolata.

Se la Berlino ghiacciata di Isherwood fa battere i denti solo a leggerla, questo paesaggio che mi si dispiega davanti ogni mattina mi fa battere la testa contro il muro ogni giorno. 

Bisognava aspettare la neve, per poterlo camminare con un po' di piacere la sera. Quartiere che vive sempre come avvolto in un silenzio quasi inquientante, tanto sono rare perfino le auto che vi transitano.

Però abbiamo tanti parcheggi fantasma, casomai ne aveste bisogno: qui ogni mezzo metro di marciapiede se ne trova una fila di 5 o 6, tutti inutili, visto che ogni abitazione ha il suo garage e uno spazio parcheggio condominiale pure per gli eventuali ospiti.

Bello, dice chi vi arriva per la prima volta.
Vivici tu, ogni giorno, dico io che guardandomi intorno inizio a vedere nella perfetta razionalizzazione delle aree edificabili e degli spazi comuni una sorta di igienica gabbia per matti o aspiranti tali.


Neti Neti, mi dico da giorni. Nè questo né il caos di Berlino.
Vivere in una casupola in collina, magari con gli spifferi che entrano da porte e finestre, senza "cappotti e cappottini", ma con la bellezza di scenari che cambiano ogni giorno, a ogni stagione, con ogni condizione meteo.

Qui, il gelo, i mattoni e gli intonaci non lo soffrono mai; soffrono, invece, un dolore sordo, costante fin dal giorno in cui sono stati progettati sulla carta da qualche geometra con i neuroni igienizzati, tirati con la squadra e livellati con il filo a piombo.

Se vivi qui, solo una nevicata ti può salvare dal lento appiattimento verso lo zero termico. 
O la neutralità assente di un Buddha, quella impossibile agli umani per più di mezz'oretta al giorno.
Bisognerà fuggire, scappare, darsela a gambe.
Vincendo alla lotteria o al Superenalotto, ovvio.

mercoledì 13 dicembre 2017

L'inutilità e la gratuità

"Una volta mi è venuta l'idea che se si volesse annientare, schiacciare, castigare un uomo in modo così implacabile da far tremare in anticipo dalla paura il peggior bandito, basterebbe dare al suo lavoro un carattere di perfetta assurdità, di inutilità assoluta" (Memorie del sottosuolo - Fëdor Dostoevskij - 1864)
Quasi tutto ciò che faccio per guadagnarmi da vivere è contrassegnato da questa inutilità, giacché tutto ciò che non mi interessa in modo assoluto mi appare di una gratuità che rasenta il supplizio." -
(E. Cioran - Quaderni - 24 febbraio 1958) 
Chissà che ne direbbero i due (Dostoevskij e Cioran) della gratuità che rasenta il supplizio degli attuali lavori di perfetta assurdità, dell' inutilità assoluta di molti lavoretti della gig economy: pedali come un matto, ad esempio, per consegnare cibo a cialtroni che faticano a staccarsi dall'indigestione di serie tv per andarsi a mangiare una pizza. 
Pizza che comunque, fino alla tragedia dell'invenzione delle app che fatturano milioni facendo pedalare gente alla fame per 5€/h lordi, quando va bene, venivano comunque consegnate a domicilio da ragazzi retribuiti meglio dalle pizzerie vicino casa.

Il lavoro inutile che serve solo ad annientare, schiacciare, castigare un uomo in modo così implacabile da far tremare in anticipo dalla paura il peggior bandito.

Infatti, i banditi (quasi sempre impuniti) proliferano ovunque, in ogni città o paesello italiano dove ormai svaligiano case setacciandole per quartiere e/o spaccano vetri alle auto in sosta sottocasa di notte per rubare cruscotti e accessori costati stipendi per rivenderli in paesi dove al costo di un cruscotto italiano ci campa una famiglia.

Vien da pensare che più che pedalare, oggi converrebbe rubare: si fanno più soldi correndo meno rischi e sostenendo meno spese per la manutenzione della bicicletta.

P.S. La considerazione a chiusura è: rubare è ancora un lavoro riconosciuto come tale perfino dai tribunali, che infatti liquidano risarcimenti adeguati all'aspettativa di vita del ladro sparato dalla vittima dei furti. 
Quindi è lavoro utile.
Pedalare invece no, non è considerato un lavoro nemmeno dai tribunali, solo una sorta di passatempo per ragazzini in età scolare da fare a ore perse e che potrebbe fruttare un paio di euro e forse nemmeno quelli. 
Pedalare è un lavoro di una tale perfetta assurdità che farebbe impazzire qualunque bandito.
Che avendo voglia di lavorare sul serio, ruba. E fa qualcosa che da l'avvio una catena produttiva che va dal ricomprare ciò che ti rubano (e son soldi che girano), ai carabinieri che raccolgono inutili denunce di furti, ai ricettatori che si industriano a smerciare ad altri che a loro volta trafficano sulla merce rubata, ai carcerieri, ai giudici, agli avvocati, alle segretarie degli avvocati, alle cartolerie, alle rivendite di bolli per atti giudiziari, ecc ecc fino all'immancabile catering che fornisce pasti su misura per carcerati di ogni razza, etnia, credo religioso.
Rubare fa bene a molti, pedalare solo ai gestori delle app di cibo a domicilio in bicicletta.
Pedalare meno, rubare di più, per risolvere la crisi occupazionale giovanile.
Ecco.

giovedì 16 novembre 2017

News da una binge reader

Qualche giorno fa Marilù scriveva (circa) in un commento in coda all'ultimo post:"...Sono preoccupata, va tutto bene? E' da un mese che non posti più nulla...".
 

Una specie di sveglia ha iniziato a trillarmi nelle orecchie mentre, fino a lì, nonostante già qualcun altro mi avesse fatto più volte la stessa domanda, non avevo ancora davvero realizzato che, niente, da pubblicare sul blog non mi veniva che qualche vaga idea destinata a rimanere allo stato di bozza.

Così ho iniziato a chiedermi che diavolo mi stia succedendo, perché negli ultimi tempi sbirci la rete in modo molto distratto e peschi le poche notizie da Twitter, così da farne una rapida indigestione e passare subito ad altro.

Cosa?

Ora, non so che tipo di lettori siano i pochi followers che arrivano a leggere questo blog, ma una cosa di me come lettrice l'ho capita: temo di essere più una binge reader, cioè una lettrice affamata (be angry, be foolish?), che una produttrice di post convinta.

In quest'ultimo mese, ad esempio, sono stata così immersa nella lettura da nemmeno rendermi conto se fuori fosse ancora giorno o già notte. 

Negli ultimi 10 giorni poi, uno via l'altro e senza pause, ho letto 5 libri e almeno 1.800 pagine, credo, levandomi dal divano solo per organizzarmi un caffè, un pasto iperveloce, stendere la biancheria dalla lavatrice, poco altro. 
Milleottocento pagine circa, alcune delle quali a caratteri microscopici come se ne trovano ormai solo nei vecchi libri che si trovano usati alle bancarelle.
Vero è che quando leggo non conosco parenti, come si dice: rispondo controvoglia a pochissime telefonate, evito di lasciarmi travolgere dalle poche notizie in rete e, se non per qualche compulsivo tweet che placa in poche battute la mia attività sui social, l'unica mia attività è quella del voltar pagina.

Non so se anche ad altri succeda, ma per me leggere è per lo più leggere compulsivamente, senza freni inibitori, senza troppe pause, senza distrazioni. A volte leggo per ore, mettendomi in pausa solo quando crollo dal sonno o quando, purtroppo, mi squilla una telefonata cui non posso evitare di rispondere.

Non sempre, ovvio, non con tutte le letture è così; spesso, anzi, fra un libro impegnativo e l'altro, mi rilasso con la lettura di qualche romanzo più leggero, ma sempre restando sul pezzo.
E negli ultimi 4/5 anni, il mio pezzo sono letture prodotte o ambientate fra fine '800 e inizio '900 del secolo scorso.
Se poi l'autore o il libro parlano dell'est europeo, dell'Asia Centrale o Centro Occidentale, sparisco da questo mondo per catapultarmi in quello a cavallo del secolo scorso immaginandomi per giorni di vivere in quell'area come se quella fosse l'unica casa che riconosco come mia casa ideale.

Il perché da qualche tempo mi sia presa questa patologia da Novecento credo di iniziare a capirlo solo ora: che si tratti di un libro di storia, di una autobiografia, di un saggio o di un romanzo, ogni autore che parla o è vissuto in quel periodo, aggiunge di volta in volta dettagli e tasselli che mi dicono meglio di ogni pezzo attuale cosa sta (forse) succedendo nella stessa area geografica oggi.
Mi pare cioè di poter comprendere il mio mondo solo immergendomi in quel mondo di ieri* che più lo frequento più mi si rivela decisivo (il libro di Zweig citato, Il mondo di ieri, è stata una delle letture più appassionanti in tal senso degli ultimi anni).

Ma non solo Zweig.
Decisivi sono stati sicuramente i libri di Hopkirk, e su tutti Il Grande Gioco, dal quale forse la patologia è per me iniziata; ma altrettanto appassionanti sono stati poi Andrić (Il Ponte sulla Drina, Cronaca di Travnik, ecc), Montenegro di Tomašević, Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello di Sándor Kopácsi (sui giorni della rivolta d'Ungheria del '56) e l'immenso (in ogni senso), I Fantasmi di Mosca (Hotel Lux e La confessione di Sveto) di Enzo Bettiza.
Ecco, Bettiza è la mia scoperta novecentesca più recente (anche se l'autore è mancato solo pochi mesi fa, è per me un autore novecentesco a pieno titolo).
Fino all'inizio di quest'anno di lui non avevo mai letto assolutamente niente, poi è stata una Caporetto: da allora, sono a più o meno tutto Bettiza, e tutto a rotta di collo, finito un libro sotto l'altro, come se non ci fosse un domani o avessi quaranta fucili signor Colonnello puntati alla tempia per esaurirne la produzione letteraria e giornalistica in tempi record.
Come molti autori per me "di confine", cioè quegli autori che si son trovati a nascere in un mondo di ieri, quello dove ancora esisteva l'Impero austro-ungarico i quali, poi, nel giro di un batter di ciglia della storia, si son trovati ad essere stranieri nella patria di origine ed eterni esuli in quella di adozione e nel mondo in generale, Bettiza mi si è rivelato una fonte inesauribile di notizie, dettagli e piccole o grandi storie che vagano fra la sua natìa Dalmazia, allora asburgica, e quell'Europa del Primo Dopoguerra che mi pare essere stata crogiuolo e fucina di ogni vecchia e nuova ingiustizia sociale.
Ha poi una conoscenza pressoché enciclopedica sul mondo slavo, e sovietico in particolare, il che mi aiuta a unire i puntini, fin qui ancora un po' sparsi.

In più, ha quella elegante e bella scrittura che riscontro ormai solo negli autori nati o vissuti in quel periodo (o prima), forse perché allora la bella scrittura era importante quanto una buona educazione e il vestire appropriato, cose tutte che oggi non contano quasi più, e invece...Non sono anche queste cose che vanno scomparendo, un segno della civiltà che stiamo asfaltando?.
 

Scrivere, oggi, poi, a forza di scuole di scrittura e redazione di contenuti attrattivi per la lettura sul web, si sta riducendo sempre più a un'essenzialità che sfiora la sterlità. 
La necessità di produrre testi semplici e sintetici, che somigliano sempre più a spot promozionali lunghi, pare ridurre sempre più ciò che viene pubblicato (sul web ma anche su cartaceo), a una razionale esposizione occhieggiante alla psicologia della vendita (del pezzo), togliendo dai testi tutto ciò che nella lettura poi, invece, è ciò che appassiona.
O almeno, è ancora ciò che appassiona la binge reader che è in me: via le descrizioni dettagliate dei personaggi (ché finisci altrimenti per annoiare quanto un classico russo, che infatti io adoro), estremamente dosate le descrizioni degli ambienti (c'é qualcosa di più rilassante e piacevole delle minuziose descrizioni dei salotti proustiani o delle "confessioni" di Sveto in Bettiza?), parchi nel divagare sull'humus sociale in cui il racconto si va a sviluppare (impagabile, sempre in Bettiza nei Fantasmi di Mosca, la descrizione della Vienna e di Monaco negli anni prima della Seconda Guerra Mondiale), l'eccesso di concentrazione sull'obiettivo finale sgrassa via tutto il godibile della lettura.

Ecco, lo vedete? Più leggo e meno m'importa di essere sintetica, di non annoiare chi legge pur sapendo che sul web si hanno sempre tempi contigentati come dovessimo tutti, dopo ogni pezzo, prendere un treno, mentre veniamo invece solamente rimbalzati da una lettura all'altra come utili palline del flipper (altra cosa che non compare più nei libri odierni, il flipper, e che avrebbe invece ancora tutto un suo mondo da descrivere), facendo di noi alla fine solo dei consumatori di notizie e di pagine riproposte da mille altre pagine, ognuna delle quali cerca una propria visibilità e attrattività mentre, ogni giorno di più, tutto mi pare diventare fuffa che ripropone fuffa e della quale non mi resta che una vaga e informe sensazione di confuso nulla.

Con alcune eccellenti pagine, va detto, i cui autori sono delle vere e proprie perle in un mare di pèoci.

Poi c'é questa altra cosa: il web mi risulta sempre più uno spartiacque fra il mondo di ieri* e quello di (forse) domani.
Come se, penso a volte, dopo le Torri Gemelle del 2001, a portarmi oggi qui, avesse contribuito non poco proprio la progressiva invadenza della vita sempre più dematerializzata che, ormai alle battute finali, pare far assumere sempre più al web la funzione di una pompa aspirante il cui scopo è trasferirti armi e bagagli sul cloud, risputandoti lì quale rieducato e adattato ectoplasma perfetto per la vita nel futuro mondo di Papalla.
Da quegli anni a cavallo del secolo scorso che mi appassionano segregandomi sul divano per intere giornate, è come fossi arrivata qui, oggi, senza accorgermi che fra una guerra mondiale e l'altra, fra l'illusione di una libertà di costumi e d'espressione, fra una disintegrazione violenta dell'ex Jugoslavia e quella ancora in itinere nei paesi arabi che si affacciano sul Mediterraneo, non mi fossi mai resa davvero conto che a ogni torre, a ogni confine, a ogni barriera culturale e mentale che veniva abbattuta, io finivo sempre più imbrigliata dentro una rete collosa dove gioco il mio ruolo di bit utile al compimento di un cambiamento di stato nel quale non avrò più alcuna voce né alcuna importanza quale umano, solo come identità virtuale ectoplasmatica soggetta alla legge universale dettata dal Grande Fratello (FB+Big G + ecct?).

Ciò che mi sembrava all'inizio del 2000 una straordinaria apertura di nuove opportunità, un'aggiunta di libertà, una fantastica possibilità di interagire con chiunque nel mondo e un mezzo per poter gratificare la mia sete di letture e notizie si rivela oggi, sempre più, invece, a guardare le cose misurandole da quel lontano inizio secolo scorso, una vera e propria tela di ragno nella quale, una volta catturata come una delle tante mosche che vi sbattono volontariamente contro, non lascia più fuggire nessuno neanche disertandola.
Questo mondo virtuale che doveva aggiungere informazioni e scoperte, è ormai un obbligo sociale e civile, necessario com'é per occuparsi delle molte incombenze quotidiane e sociali, è diventata una grande trappola. 
E quel che doveva essere divertente è ormai una mera produzione di traffico dati che potenzialmente qualcuno un giorno userà, analizzerà, valuterà e spenderà senza riconoscermi nulla.

Era comunque per dire cosa sto combinando mentre sparisco dal blog: collego fili, connetto ragionamenti e tesso anch'io una mia tela di supposizioni sul mondo che verrà e, in alcuni momenti non belli, mi pare di vedere che però sono già, appunto, in un mondo parallelo virtuale operativo e in funzione, nonostante alcuni dettagli ancora in fase di rifinitura nei cantieri periferici dei server o nelle leggi ormai prodotte apposta per regolamentare la vita del web e quindi la mia.

Per ora, a volare via verso l'ultimo libro di Bettiza, Corone e Maschere. 

Poi vi saprò dire.
Forse.
Chissà.
Vedremo.

lunedì 11 settembre 2017

16 anni dopo, Shiva il Danzatore

"Hanno buttato giù le Torri del World Trade Center di New York. Non l'hai saputo?".

Solo in quel momento, catturata più dal tono della voce che dalla notizia, mi fermo e chiedo di cosa stesse parlando, il collega. 
Non avendo idea se parlasse di qualche film andato in onda alla tv poco prima di arrivare al lavoro, o cosa...
Mi spiega che no, alla tv facevano vedere gli impatti degli aerei sulle Torri Gemelle, che queste venivano giù come fossero castelli di sabbia, che dentro le Torri c'erano migliaia di persone, che venendo giù le Torri come polvere investivano di detriti anche quelli che sotto scappavano in uno scenario apocalittico.
La sera alle 8 avevo una lezione di yoga:" Non guardate quelle immagini, non fatevi condizionare da ciò che vedete. Ho parlato nel pomeriggio con un maestro indiano che vive negli Stati Uniti: dice che ciò che è accaduto, ciò che sta accadendo, è una bugia, un incantamento delle coscienze che non corrisponde alla verità, che è necessario attendere a mente lucida per conoscere un giorno la verità".
Cinica e pacifista a modo mio, ho faticato a capire il senso di ciò che mi stava dicendo, la mia insegnante-guru.
Ho pensato anzi:" Sì, ok, ora ci raccontiamo che è Māyā, il mondo delle illusioni, che tutto ciò che nasce è destinato a morire e pertanto nulla deve turbarci perché è Lila, il gioco dell'Universo, e tanto vale staccarsi dall'illusione del contingente e rilassarsi con una bella seduta di yoga".
Insomma, nulla di tutto ciò è reale, quindi distraiamoci.
Ancora non avevo visto una sola immagine alla tv e già qualcuno mi metteva in difficoltà su cosa avrei dovuto pensarne quando le avessi viste: da una parte l'autentico scossone emotivo del papà di un bambino, alla segreteria del centro sportivo dove allora lavoravo, che per primo mi aveva comunicato un fatto di cui non comprendevo il senso, e poi l'agitazione preoccupata del responsabile impianto, che in qualche modo aveva scosso la mia imperturbabile concentrazione sul lavoro più per come ne parlava che per ciò che mi andava dicendo. 
Dall'altra, la mia guru spirituale che mi premoniva di non credere a ciò che avrei visto, qualcosa che un guru ancora più lontano e avvolto in un'aura di fantomatico misticismo aveva detto a lei, mi provavano a convincere che nulla era come sembrava, così che avrei dovuto interpretare la cosa come una sorta di magheggio il cui scopo era precipitare il mondo in uno stato di illusione fantasmagorica.
Solo il giorno dopo vidi per la prima volta le immagini in tv, e poi per giorni non riuscii a staccarmene, rapita da un senso di irrealtà che mi precipitava emotivamente in uno dei peggiori incubi che la mia mente avesse potuto fin lì concepire (e ne so concepire di tremendi).
Dei consigli della mia guru francamente non ne avevo più mempria già dopo un quarto d'ora di tv, tanta era la "fame" di capire davvero che stavo incollata lì, immobile e stordita, a cercare qualcosa che non potevo capire davvero.
Negli anni, da allora, ho visto quintali di filmati, lette migliaia di parole, scavato nella rete ogni qual volta emergeva un nuovo dettaglio, una nuova ipotesi, l'opinione di qualche esperto, di qualche studioso, di qualche giornalista fuori dal gioco e che per anni ha continuato a scavare e ad analizzare fotogramma per fotogramma quelle immagini, per provare a dare un senso all'assurdo.
Oggi, 16 anni dopo, l'idea che me ne sono fatta è perfettamente aderente allo strampalato consiglio arrivatomi dopo poche ore via guru americano: nulla di ciò che avevo visto alla tv era ciò che sembrava, tranne i morti.
Quelli, come poi ho imparato a capire, sono sempre veri.
Vere sono spesso anche le scenografie, i "fondali", la composizione teatrale della rappresentazione.
Falsi come il demonio i racconti ufficiali sui fatti, veri quanto può esserlo una commedia, falso quanto può esserlo ogni opera di fantasia a teatro.
Tutto, ora mi è più chiaro di sempre, è davvero māyā: parole, pensieri, racconti, immagini, distraggono la mente dalla realtà oggettiva, al punto che questa arriva a confondersi, oscurata com'è da tutto ciò che non sono i fatti osservati senza frastornarli di pensieri o giudizi.
Illusionismo, inganno, māyā.
Ciò che consola è la certezza che nel gioco di Lila danza Shiva, il creatore e il distruttore di ogni cosa.
Come ben ne descrive la simbologia Heinrich Zimmer in Myth and Symbols in Indian Art and Civilation:
"I suoi gesti sfrenati e pieni di grazia evidenziano l'illusione cosmica; l'aleggiare delle sue braccia e delle sue gambe e l'ondeggiare del suo tronco producono - anzi sono - la continua creazione -distruzione dell'universo, dove la morte è in perfetto equilibrio con la nascita, l'annichilamento è l'esito del venire in essere"
Sulla simbologia della danza di Shiva, Coomaraswamy scrive più preciso in The dance oh Shiva:
 "I vari significati della sua danza sono espressi dai particolari di questa figura complessa e vivida. La mano destra superiore della divinità tiene un tamburo per simboleggiare il suono primordiale della creazione, la mano sinistra superiore regge una fiamma, l'elemento della distruzione. L'equilibrio delle due mani rappresenta l'equilibrio dinamico di creazione e distruzione nel mondo, reso ancora più evidente dalla calma e dalla serenità del volto del Danzatore, al centro tra le due mani, in cui la polarità di creazione e distruzione è dissolta e trascesa. La seconda mano destra è alzata nel segno del "non temere", e simboleggia la conservazione, la protezione e la pace, mentre l'altra mano sinistra è rivolta in basso verso il piede sollevato che simboleggia la liberazione dall'incantesimo della māyā. Il dio è rappresentato mentre danza sul corpo di un demone, il simbolo dell'ignoranza umana che dev'essere sconfitta prima che possa raggiungere la liberazione.

venerdì 4 agosto 2017

Fra Zara e Porto Marghera

Enzo Bettiza, nel suo Esilio che ho in lettura in questi giorni, racconta un episodio della sua adolescenza a Zara.
A un pranzo domenicale in casa degli zii, il giovane figlio dello zio Ugo (un arcigno professore di matematica), il quale studia in Italia, è tutto preso a magnificare la Roma fascista del periodo contro il padre, uomo tutt'altro che incline alle esaltazioni ideali: 
"Vuoi forse dire che Mussolini, il quale ha fatto solo del bene all'Italia, potrebbe essere paragonato ai peggiori satrapi della storia?".
Senza degnare di uno sguardo il figlio sovreccitato, senza alzare la voce, lasciò sgorgare dalle labbra austere un paio di sentenze ambiguamente sospese fra passato, presente e futuro. Ecco all'incirca il senso di ciò che lo zio Ugo disse, non solo a Tonin, ma a tutti noi commensali della domenica:
"Nerone ricostruì in parte Roma per potersi godere meglio lo spettacolo dell'incendio che poi le appiccò. Chissà quanti schiavi perirono nell'edificazione dell'enorme palazzo di Diocleziano a Spalato. Lo zar Pietro eresse la sua San Pietroburgo su montagne di cadaveri di poveri contadini russi costretti con la frusta a trascinare marmi e travi fra le malsane paludi del Baltico. Costruire per distruggere, distruggere per costruire è la doppia specialità dei grandi tiranni. Ancora una volta a Roma e perfino a Berlino, che nel Settecento era poco più di un villaggio, s'innalzano senza sosta nuove architetture imitando goffamente quelle antiche. A che pro? Si vuole forse anticipare nelle recenti costruzioni la loro imminente distruzione? Sarà la guerra, vedrete, la guerra che ormai è in atto, a dirci fra poco che nei falsi costruttori odierni si celavano in realtà i veri distruttori dell'Italia e della Germania e di altre nazioni europee. Che Dio ci liberi dai dilettanti folli! Potete forse aspettarvi qualcosa di positivo da un imbianchino che si crede un geniale architetto, o da un ignorante maestro elementare che non sa neppure distinguere il Colosseo dal Circo Massimo?"
La sentenza dello zio Ugo ha una sua eterna attualità.
Anche oggi, commentiamo gli odierni imbianchini e maestri elementari restando però acquattati nell'angusto ambito della nostra contemporaneità, impediti a misurarli in una prospettiva storica dall'impellenza dell' idiozia quotidiana.
Intuiamo a volte l'avvicinarsi di una sempre possibile guerra e non vediamo la guerra silenziosa e tragica già in corso, quella che lascia vite e sofferenze sul campo al solo scopo di nutrire ego da imbianchini o ignoranti maestri elementari che non sanno distinguere il Colosseo dal Circo Massimo.

Diocleziano ha lasciato un palazzo costato morti e sofferenze delle quali nessuno ha memoria.
Spalato - Palazzo di Diocleziano
Dei contadini morti per edificare San Pietroburgo non si è tenuto alcuna conta, basta a tutti la gloria dello Zar.
San Pietroburgo
Del recente passato italiano ci rimane invece Porto Marghera, "patrimonio" ormai soggetto a commemorazione del centenario - 1917-2017 - (tipo una Shoah industriale), grazie a un decreto del 2016 (opere degne di restauro a marcire negli scantinati, ma pronti fondi per onorare l'industria madre di ogni avvelenamento, dell'aria, dell'economia, della politica). 
Nous sommes italiens...
Petrolchimico Porto Marghera visto da Venezia
L'archeologia industriale viene molto bene in foto, e non potendola abbattere per via dei mastodontici costi (poi a volte ci provano, ma non vuole venire giù), se ne fa oggetto di turismo didattico-culturale.
Dei morti gasati, degli scioperi operai pagati a pane tolto di bocca ai figli, delle vite umane avvelenate se ne faranno riviste patinate, dibattiti colti, possibilmente film e documentari da distribuire nelle scuole (a insegnare cosa? Come si disfa un paese proprio mentre lo si commemora nella grandezza industriale che fu?).
Rendono meglio, gli ex operai di Porto Marghera, dei contadini russi che costruirono San Pietroburgo.
Tanto per dire che i tiranni di oggi lo sono fino in fondo, senza inutili tremori davanti alle oscenità: prima ti mangiano la carne, succhiandoti tutto fino all'osso. 
Poi ti monumentalizzano le ossa e ti rivendono come oggetto didattico-turistico-culturale, mettendola giù così bene che pare perfino ti avessero un tempo, da vivo, amato.
Serve sempre e solo a guadagnare, l'amore a tema del tiranno odierno. 

Ma che importa, l'horror ormai vende quanto e meglio di una love story, ché il brividino è più intenso davanti al turpe che di fronte alla bellezza venduta in serie che finisce per addormentare i sensi.

Basta che le cose luccichino un po', che brillino quel tanto che serve a continuare la farsa degli inganni scattandoci qualche selfie davanti all'ultimo orrore messo a bottega. 

Mi raccontano che a Spalato e a Dubrovnick, le guide turistiche sono ormai prese d'assalto ma solo per conoscere i posti de Il Trono di Spade.
Di Diocleziano, chissene...
Chi era? Se non è il personaggio noto di una serie tv non se lo fila nessuno...
Forse sarebbe il caso di fare una serie tv anche su Porto Marghera: certi storici operai capipopolo diverrebbero ottima attrazione per il turismo industriale, capace a quel punto di far da traino portando turisti - perfino - a visitare la Malcontenta. 
Basta organizzare di girarvi una puntata ed è fatta: su e giù di orde di dementi con il bastoncino in mano...
Villa Foscari - detta La Malcontenta

domenica 25 giugno 2017

Domenicale

"...Talvolta si dimentica la vista e l'udito, e si perde interamente l'uso della parola. Eppure proprio in quei momenti si capisce che per un attimo si è ritornati in sé..."

"...Voi galleggiate come il pesce nell'acqua o l'uccello nell'aria, ma non v'é sponda, non v'é ramo e null'altro che quel galleggiare!..." 

L'uomo senza qualità - R. Musil - Ed. Einaudi - Pag. 851

giovedì 11 maggio 2017

Verità (ai tempi delle fake-news)

Da Zentao

L’ideogramma si decompone nelle parti:
爫 che significa 爪 [zhuǎ – artigli di zampa]
孑 [zǐ – figlio]

Questo simbolo raffigura gli artigli di una zampa d’uccello nell’atto di proteggere i propri figli, le proprie uova, vita che nasce.
Ecco che la verità è simboleggiata dalla vita e dal valore che si dà ad essa.
                Verità e amore per la vita sono dunque vincolati in modo assoluto.

Non esiste una sola idea importante di cui la stupidità non abbia saputo servirsi, essa è pronta e versatile e può indossare tutti i vestiti della verità.
La verità invece ha un abito solo e una sola strada, ed è sempre in svantaggio.
Da L'uomo senza qualità - R. Musil - Ed. Einaudi 1996 - Vol. 1 - pag. 62

lunedì 1 maggio 2017

Kral Majales

Nel 1965 Allen Ginsberg arriva per la seconda volta a Praga, allora capitale della Repubblica di Cecoslovacchia, paese sotto la sfera d’influenza dell’U.R.S.S.

Partecipa alle sfilate in costume e ai baccanali del Festival del Kral Majales, festa tradizionale cecoslovacca che durante il regime diventa occasione di opposizione mascherata, ed è qui che il poeta viene incoronato Re di Maggio (Kral Majales) dall’assemblea degli studenti universitari. Nel suo discorso di incoronazione dedica la sua corona a Franz Kafka.

Poco dopo viene arrestato dalla polizia, tenuto in isolamento e successivamente caricato a forza su un aereo con destinazione Heathrow, Londra.

E’ durante questo volo che scrive Kral Majales,
la poesia riportata qui sotto nella traduzione di Fernanda Pivano (sue anche le note) da me ripresa da Mantra del Re di Maggio, edizione Oscar Mondadori, 1973.

E i Comunisti non hanno da offrire che guance grasse e occhiali
e poliziotti bugiardi
e i Capitalisti profferiscono Napalm e denaro in valigie verdi ai
Nudi,
e i Comunisti creano l’industria pesante ma anche il cuore è
pesante
e gli ingegneri bellissimi sono tutti morti, i tecnici segreti cospirano per il loro splendore
nel Futuro, nel Futuro, ma ora bevono vodka e si lamentano per le Forze dell’Ordine,
e i Capitalisti bevono gin e whisky sugli aeroplani ma lasciano
affamare milioni di Indiani bruni
e quando sederi Comunisti e Capitalisti si intrecciano l’uomo Giusto viene arrestato
o derubato o decapitato,
ma non come Kabir (1), e la tosse da sigaretta dell’uomo Giusto sopra le nuvole
nella luce viva del sole è un omaggio alla salute del cielo azzurro.
Perché io sono stato arrestato tre volte a Praga, una volta perché
ho cantato ubriaco nella via Narodni,
una volta scaraventato sul marciapiede di mezzanotte da un agente
che strillava tra i baffi BOUZERANT! (2)
una volta perché ho perduto i miei quaderni di insolite opinioni
sesso politica sogno,
e fui mandato via dall’Havana (3) in aereo da poliziotti in uniforme
verde,
e fui mandato via da Praga in aereo da poliziotti in vestiti borghesi cecoslovacchi,
Giocatori di carte come in Cezanne, le due bambole strane che entraro in camera di Joseph K.(4) al mattutino
anche entrarono nella mia, e mangiarono al mio tavolo, e esaminarono
i miei scarabocchi,
e mi seguirono notte e mattutino dalle case degli amanti ai caffè
del Centrum (5) -
E io sono il Re di Maggio, il quale è il potere della gioventù sessuale,
e io sono il Re di Maggio, il quale è attività in eloquenza e azione
in amour,
e io sono il Re di Maggio, il quale è capelli lunghi di Adamo e la Barba del mio stesso corpo,
e io sono il Re di Maggio, il quale è Kral Majales (6) nella lingua cecoslovacca,
e io sono il Re di Maggio, il quale è la
vecchia poesia Umana, e 100.000 persone scelsero il mio nome,
e io sono il Re di Maggio, e fra qualche minuto atterrerò all’aeroporto
di Londra,
e io sono il Re di Maggio, naturalmente, essendo di genitori slavi e Ebreo Buddhista
che adora il Sacro Cuore di Cristo il Corpo Azzurro di Krishna la
schiena dritta di Ram (7)
le collane di Chango il Nigeriano (8) e canto Shiva Shiva (9) in una
maniera che ho inventato io
e il Re di Maggio è un onore mitteleurope, mio nel XX secolo
nonostante le astronavi e la Macchina del Tempo, perché ho udito
la voce di Blake (10) in una visione
e ripeto quella voce. E io sono il Re di Maggio il quale va a letto
con teenagers ridendo.
E io sono il Re di Maggio, espulso io sia dal mio Regno con Onore,
come in antico,
a mostrare la differenza tra il Regno di Cesare e il Regno del Maggio
dell’Uomo -
e io sono il Re di Maggio, però paranoico, perché il Regno di Maggio ha troppa bellezza per durar più di un mese -
e io sono il Re di Maggio perché mi sono portato un dito alla
fronte per salutare
una grossa ragazza luminosa dalle mani tremanti che disse: “Un
momento Signor Ginsberg”
prima che un grasso giovane poliziotto  in Borghese si mettesse
tra i nostri corpi - io andavo in Inghilterra -
e io sono il Re di Maggio, di ritorno a vedere Bunhill Fields (11) e
a passeggiare in Hampstead Heat, (12)
e io sono il Re di Maggio , in un gigantesco aviojet che tocca(13)
l’aeroporto di Albione (14) e tremo di paura
mentre l’aereo atterrando sull’asfalto grigio romba, si scrolla ed
espelle aria,
e dondola lentamente fino a fermarsi sotto la nuvola con una parte
di cielo azzurro ancora visibile.
E anche se sono il Re di Maggio, i Marxisti mi hanno picchiato
per strada, mi hanno tenuto in piedi tutta la notte in un Com
missariato, mi hanno seguito attraverso Praga Primavera, mi
hanno detenuto in segreto e deportato dal nostro regno in aereoplano.
Così ho scritto questa poesia su un sedile di jet in mezzo al Cielo.


7 Maggio 1965

In epoca di educati e retributivi Concertoni di Maggio, sui cui palchi salgono gruppi e cantanti il cui tasso di ribellione al sistema è così inoffensivo da risultare sedativo, mi piace ricordare che c’é stato un tempo in cui un poeta pazzo fu incoronato Re di Maggio in un rito più antico del liturgico 1° Maggio quale Festa dei Lavoratori e che, non appena sceso da una carrozza di fiori e incoronato, fu arrestato e spedito in esilio, così che non nuocesse troppo alle parate e ai canti dei lavoratori, oggi tutti ugualmente fottuti. 

Forse l'unica uguaglianza che conosceranno mai.

Note:
1. Kabir: ciabattino analfabeta del XIII secolo, mistico poeta santo di Benares, tradotto da Tagore, Ezra Pound e Robert Bly. Un suo famoso verso dice:" Se l'amore fosse in vendita nelle piazze del mercato al prezzo di una testa, mi taglierei la testa".
2. BOUZERANT: parola cecoslovacca che corrisponde più o meno al nostro "finocchio"
3. Havana: nella primavera del 1965 il poeta venne espulso da Cuba per "violazione delle leggi". Quando chiese quali leggi avesse violato, il burocrate  responsabile gli rispose che doveva chiederlo a se stesso. In realtà l'espulsione va imputata alle esplicite conversazioni del poeta sulla propria omosessualità e alle sue proteste circa le leggi repressive a questo proposito in vigore nella Repubblica Cubana.
4. Joseph K. : eroe del Processo di Kafka, scrittore appunto cecoslovacco
5. Centrum: è il centro della città di Praga
6. Kral Majales: parola cecoslovacca che significa Re di Maggio. A Praga il 1° Maggio viene celebrato tuttora con una festa tradizionale di origine antichissima durante la quale gli studenti e gli intellettuali nominano una "Regina" e un "Re di Maggio",  scegliendoli tra i poeti o gli scrittori o i personaggi popolari. Nel 1965 una folla di 100.000 persone elesse Allen Ginsberg dopo che il poeta aveva attraversato la città su una carrozza fiorita scortata dagli studenti del Politecnico. L'elezione suscitò i sospetti xenofobi delle autorità che, servendosi dei testi pare compromettenti di un pezzo del diario perduto del poeta a un concerto di rock and roll e trovato (o così si dice) da un poliziotto che lo pedinava, lo espulsero da Praga accompagnandolo in stato di arresto a un aereo in partenza per Londra
7. Ram: eroe dell'epopea indiana Ramayana, incarnazione di Vishnu
8. Chango: dio fallico adorato dalla tribù nigeriana Yoruba
9. Shiva: dio della nascita e della morte nella religione indù
10.William Blake: poeta inglese. Nel 1948 Ginsberg ebbe una visione: mentre leggeva Sunflower, appunto di Blake, udì una voce che lo leggeva. Con parole sue:" Tutto mi parve completamente vivo, come una intelligenza concretizzata, e guardando dalla finestra tutti i cornicioni vittoriani degli slums 1910 dello Harlem spagnolo diventarono l'opera manuale di un creatore: ogni mattone e su nel cielo, il sole, la stessa sostanza azzurra dello spazio". Questo avveniva parecchi anni prima che il poeta incominciasse le esperienze psichedeliche
11. Bunhill Fields: luogo di sepoltura del poeta William Blake, in un cimitero nell'East End di Londra
12. Hampstead Heath: vasta prateria boscosa che circondava la casa in cui abitò il poeta John Keats 
13. Si intende: le ruote dell'aereo sfiorano il suolo dell'aeroporto. La poesia è stata scritta in aereo durante il volo tra Praga e Londra 
14. Albione: nome con il quale il poeta William Blake designava l'Inghilterra

lunedì 10 aprile 2017

Schiavo d'amore

La mia idea di giornata perfetta: una giornata di sole primaverile, non troppo calda, da passare leggendo le ultime pagine di un romanzo di W. S. Maugham sulla sdraio, in terrazzo.

Una pausa qui e là, per distanziarmi da un passaggio coinvolgente sul quale prendermi un minuto per meditare, mentre tolgo qualche foglia secca dall'edera o lascio vagare lo sguardo sul prato e sul niente.

Ore senza tempo a seguire una trama che, come succede con certi buoni romanzieri, mi fa sentire bene con me stessa, come se ogni personaggio del libro non fosse che un lato di me che emerge dalle pagine per chiarirmi certe mie asperità, certi voli pindarici della mente o certe contraddizioni che di tanto in tanto in me riaffiorano.

Poi arriva sera, il romanzo è finito, e mi sento in pace.

sabato 1 aprile 2017

Cerchi infiniti

Ecco un assaggio tratto da Cerchi infiniti attualmente in lettura (Iperborea, 180 paginette molto ben scritte):
“ Per i giapponesi la natura è animata, in senso letterale. Negli alberi, nei ruscelli e nelle colline vivono dei, spiriti, anime. Questo popolo ha un rapporto mistico con la natura, in nessun altro luogo è così evidente come nei giardini zen. Rispetto ai giardini di Versailles o, su scala più piccola, al Belvedere di Vienna, la differenza è lampante. Noi abbiamo trattato la natura come un nemico da reprimere, che dimostra la sua sottomissione come un reggimento pronto a essere passato in rassegna, in una simmetria totale e così ordinata che balza subito all’occhio da un terrazzo: alberi potati (!), cespugli sagomati a schiera. Qui invece la simmetria è una bestemmia, non fosse altro che per il fatto che in natura non esiste. Qualcosa che di per sé è una forza, possiede un’anima, non può essere mutilata e costretta in forme geometriche; tutt’al più la si può intensificare imitandola su una scala molto ridotta. Allora le pietre diventano colline e montagne, la ghiaia rastrellata diventa un lago o un mare, un semplice ciuffo di trifoglio può diventare, come nell’antico palazzo imperiale di Heian (Kyoto), il simbolo che meglio rappresenta il ritmo eterno del cambiamento in natura”.
Lo stupore, ogni volta nuovo, che meglio rappresenta il ritmo eterno del cambiamento in natura, è per me quello che provo in questi giorni quando, affacciandomi dal balcone, posso lasciar vagare lo sguardo sul prato della foto qui sotto: disseminato di anarchici fiori di tarassaco, è di una bellezza spontanea e caduca poiché dura giusto fino all’arrivo, che prevedo a brevissimo, del primo operaio del comune armato di taglia erba.


Il mio rapporto romantico ma conflittuale con la natura: mentre ieri sera leggevo su Cerchi infiniti "...la natura come nemico da reprimere...", ricordavo come m’era risalito un grumo di furia omicida l’altra mattina, quando su Twitter girava la foto qui sotto.


domenica 12 febbraio 2017

I deserti

Stamattina l'aria mi dice che la primavera è in arrivo.
Qualcuno contesta questa mia indimostrabile certezza olfattiva, eppure non cedo: devo forse provare ad altri cose che il mio fiuto e il mio istinto sanno senza alcun bisogno di evidenze scientifiche?
Per niente. 
Su alcune cose le mie sensazioni mi sono più precise di uno spettrometro di massa.
Della brutalità della scienza, quando certifica cose che smentiscono la millenaria sapienza dell'uomo, ho imparato da tempo a diffidare.
Da una settimana, per dire, non passa giorno senza che un dolore sordo e solitario mi prenda pensando alla scomparsa di un lago che ho profondamento amato, il Lago di Jablanica.
So con certezza che l'hanno ridotto esattamente come stanno riducendo gli umani del pianeta: mera energia da sfruttare fino alla desertificazione.
Ecco com'era, il lago di Jablanica, fotografato da me medesima mentre in stato di rapimento estatico l'avevo imponente davanti a me:
Per chilometri e chilometri, lungo la strada che da Sarajevo porta verso l'Adriatico, la Neretva (la Narenta dei veneziani), mi scorreva a fianco verso la stessa destinazione.
Il colore verde smeraldo, e la vegetazione incredibile che la contiene e l'abbraccia, me ne ha fatta innamorare. Senza scampo.
Così, continuando a vedere lungo la strada cartelli che segnalavano punti di ospitalità per vacanzieri pescatori, e intuendo da quelli l'accessibilità al fiume, ho costretto chi guidava a fermare l'auto per poter raggiungere quell'ammaliante verde.
Un angolo, niente di più, dove dei bambini locali facevano il bagno come nessuno di noi fa più lungo i fiumi.
Un blu intenso che si estendeva profondo all'orizzonte attorniato da montagne, boschi, casupole sparse.
Non avete idea, se non l'avete visto con i vostri occhi, di quale potente emozione vi può travolgere nell'avere davanti a voi ciò che nessuna foto può rendere.

Una settimana fa leggevo che la diga costruita più a monte, per imbrigliare l'acqua della Neretva, ha ridotto quel bellissomo lago così:
L'angolazione di questa foto, di questo orrore primordiale, forse non è esattamente la stessa, ma il lago è quello di Jablanica, il fiume che lo alimentava è sempre quella Neretva che, per quel che ne rimane, verde in questo tratto non pare più.
Naturalmente, come accade ormai dopo che i danni sono evidenti, la società elettrica che ha i diritti di sfruttamento sulla diga e l'ispettorato alle acque della Bosnja i Erzegovina, additano al lungo periodo di siccità la responsabilità del prosciugamento del lago.

Che volete farci, noi siamo ignoranti, e la scienza al servizio del capitale sa cose che noi umani non possiamo sapere...

Il Lago artificiale di Jablanica ha (aveva) una profondità di circa 80mt e si estende(va) per circa 30Km da Konjic e Jablanica, a sud di Sarajevo.
Una roba immensa.
Se la siccità è riuscita a prosciugare in pochi giorni, di un inverno indubbiamente secco, una roba così, il Brenta che mi scorre sotto casa dovrebbe essere deserto e secco da mesi, visto che la siccità non lo ha risparmiato. 
Il Po, con pari siccità, dovrebbe essere un letto di sabbia, e l'Adige non essere più che un letto di uguale fanghiglia.
Ho visto il letto del Tagliamento prosciugato nei giorni di Natale, ma a monte del Tagliamento c'è la diga di Sauris, una "bestia" posta fra Ampezzo e Tolmezzo, quindi nulla di nuovo e anzi, quasi una conferma di quanto a prosciugare un fiume sia quasi sempre una diga, quasi mai la siccità.

Le dighe sono causa di uguali devastazioni ovunque nel mondo, dove sorgono desertificano la vita tutto intorno, sia quella vegetale che quella animale che quella degli insediamenti umani che lungo i più grandi fiumi del mondo hanno da sempre trovato un ambiente in cui vivere.

Tempo fa, leggendo uno dei libri più appassionanti degli ultimi anni, Imperi dell'Indo, di Alice Albinia, scoprivo per la prima volta come le grandi dighe arrivino a desertificare fiumi la cui storia si perde nella notte dei tempi, come prosciughino ed estinguano con l'acqua intere culture e interi ecosistemi.
La fame dell'uomo moderno di energia sta disidratando il pianeta, cosa che dovrebbe preoccuparlo molto più dell'attuale necessità di energia.

Le dighe sull'Indo, come racconta Alice Albinia nel suo libro, hanno fatto scomparire culture che sul grande sacro fiume si sono sviluppate vivendo del fiume per secoli, hanno ridotto in miseria ambiente e popolazioni lungo tutto il suo lunghissimo percorso. 

Da quella lettura, non ho smesso di provare dolore, vero dolore fisico a ogni notizia di costruzione di nuove mega dighe in giro per il mondo (a questo link un po' di materiale sui danni delle mega dighe).
Progetti faraonici che distruggono ogni vita là dove si innalzano presentati sempre come soluzioni indispensabili per migliorare la qualità della vita umana (forse è tempo di rivedere la nostra idea di cosa sia meglio per l'uomo, magari basandoci su tempi lunghi, più che su quelli del "tutto e subito" attuali).
Molti diranno che l'energia è necessaria, e che questo giustifica lo sfruttamento di ogni risorsa possibile.
Io penso che questa nostra dispendiosa vita è possibile grazie alla fame e alla morte di altre persone, di fiumi, di pesci, di animali, di vegetazione, di ogni microclima che ogni grande fiume regala da sempre all'uomo.

Forse aveva ragione F.S. Fitzgerald nel dire (in Tenera è la notte), che chi andava a combattere in guerra era convinto ad: "...andare in guerra per la “patria”, (che) fosse per loro andare a combattere per proteggere un panorama che un certo giorno li aveva emozionati, certi luoghi visti in un giorno di gita con le persone care, certe piazze o certi caffè a loro cari perché lì vi avevano vissuto un qualche momento felice...".
Se già fa male sapere quale distruzione portano le grandi dighe in giro per il pianeta, vedere cosa ha fatto la diga di Jablanica al "mio" lago, e quindi alla mia amata Neretva, mi fa sentire in lutto, come mi avessero rubato uno di quei panorami emotivi senza i quali, come scrive Fitzgerald, nessun soldato un tempo sarebbe andato in guerra, senza il quale oggi mi sento un piccolo essere atrofizzato perché reso incapace di combattere per la mia terra emotiva, per ciò che mi fa sentire umanamente felice e senza la cui bellezza tutto mi diventa arido, in ogni senso possibile.

Sentite cosa scrive Alice Albinia a proposito della devastazione dell'Indo provocata dalle dighe che lo spezzano più volte lungo il suo percorso:
Ogni anno milioni di uccelli migratori provenienti dall'Africa orientale, dall'Asia e dall'Europa volano seguendo il corso del fiume che, per gli ornitologi, è la "rotta migratoria internazionale numero 4". Alcuni uccelli entrano nella valle dell'Indo dai passi Karakorum, Khyber e Kojak, come i guerrieri islamici medievali e i contrabbandieri del ventunesimo secolo; altri per l'estate si fermano ai laghi del Sindh, come fanno i pescatori e i nomadi; altri ancora, durante la stagione calda, migrano dall'Himalaya verso occidente, per poi tornare a oriente verso l'inverno. L'Indo è frequentato da uccelli di mare, fiume, palude, deserto, collina, foresta e montagna. (..) Nelle loro migrazioni annuali gli uccelli seguono probabilmente le rotte aperte dai loro pionieristici   antenati dopo la fine dell'ultima era glaciale. Questo fenomeno è presente nelle primissime testimonianze culturali lasciate dagli uomini che vissero lungo la traiettoria di volo degli uccelli, non a caso un antico motivo della poesia indù è la similitudine fra il viaggio dell'anima verso Dio e quello delle oche che migrano fino al lago Manasarovar. (...) Mano a mano che il fiume si riduce, si riduce anche il numero dei fenicotteri, dei pellicani, delle oche. Il tratto inferiore dell'Indo venne colonizzato per la prima volta dall'Homo sapiens dopo la migrazione che lo portò fuori dall'Africa circa ottantamila anni fa. Quarantamila anni dopo, fu questo fiume che gli esseri umani attraversarono per raggiungere l'India, e che risalirono verso nord, andando a popolare Tibet e Asia centrale. In tempi più recenti, l'Indo inferiore ha nutrito milioni e milioni di uomini, i quali a loro volta hanno provveduto a trasformarlo. Ma nel Tibet la popolazione autoctona non ha alterato in alcun modo il fiume. I drokpa studiano l'arrivo  e la partenza degli uccelli migratori dalle terre dove i loro animali pascolano da tempi ancestrali, ma non li uccidono mai, né li mangiano. Così come non mangiano i pesci del fiume, non hanno recinzioni per i loro terreni, non mietono e non seminano. La differenza fra i drokpa e i costruttori di dighe è illuminante. Se una diga è il simbolo supremo del tentativo degli uomini di controllare la natura, i nomadi dell'altopiano del Tibet sono un modello di armonia.

La Bosnia i Erzegovina mi ha fatta innamorare per una simile armonia, per il verde intenso dei boschi, le montagne folte di vegetazione, i possenti fiumi che la attraversano creando scenari spettacolari nutrendo pesci, uomini, uccelli e vegetazione. 
Un paese ricchissimo, rigenerante per l'anima di chi, come me, arrivava dai moderni deserti industriali del Nord-Est, che pure qualche piccolo angolo di natura rassicurante lo conserva, sempre più a fatica.
Il Lago Jablanica è scomparso non per la siccità, ma per mano dell'uomo predatore, lasciando la mia Bosnia come nuda, indecente, sconcia, senza vita. 
Di questo mi sento certa come del fatto che l'aria stamattina profumava di primavera.

Forse piano piano un po' d'acqua tornerà a ricoprire le sabbie e il fango, forse fra qualche tempo sembrerà di nuovo un panorama rassicurante per l'anima di chi attraversando la Bosnia avrà a scorrerle a fianco la Neretva, ma mai più il panorama sarà davvero come prima. 
Solo, l'occhio pian piano si abituerà ad altri colori, a verdi più sbiaditi e ad acque non più così intensamente verdi, a un lago meno profondo e al colore meno blu delle sue acque, a scambiare un rivolo d'acqua per un fiume e un invaso, controllato a scopo sfruttamento, per un lago.
Ma quella natura intatta, quelle acque dei fiumi bosniaci hanno saputo ispirare il mio spirito mentre l'attraversavo, gli uomini che su quel fiume ho visto nuotare bambini e gli uomini che hanno pescato dalle sue ricche acque fino a ieri, mai più rivedranno il loro mondo vivendo le stesse potenti emozioni che solo un ambiente che pare immobile nel tempo, nel pieno della sua autentica bellezza, sa comunicare a chi lo guarda arrivando a toccarlo fin dentro l'anima, rigenerandola.
I deserti non inaridiscono solo la terra, inaridiscono l'anima.
Ciò che l'uomo fa alla terra, la terra lo fa all'uomo. 
Se siamo consapevoli di un indossolubile doppio legame fra l'uomo e l'ambiente in cui vive; se riusciamo a vedere come l'impoverimento della terra corre parallelo all'impoverimento dell'uomo; se intuiamo come nel perdere progressivamente la bellezza e la sapienza dei nostri panorami del cuore lentamente stiamo perdendo contatto con la parte più profonda di noi stessi, allora forse iniziamo a comprendere che la vera ricchezza, il vero benessere, la migliore qualità di vita per l'uomo è nell'aver cura delle proprie terre. 
Quelle da cui per millenni i nostri padri, i nostri antenati, hanno ricavato il pane e sulle quali ha sviluppato culture e civiltà che stiamo perdendo immolati al cieco profitto di chi crede - da cieco - che la ricchezza siano i denari e il cemento.
Come ricordavano i saggi nativi americani ai predatori delle loro terre, quando non ci saranno più terre coltivabili e fiumi, cosa nutrirà l'uomo, i bit delle foto di cibo sullo schermo mentre ingoieremo pillole sintetiche di cibo virtuale (ci mangiamo la natura per cagare cemento, come suggerisce lo street artist Nemo)?
Per risentire l'odore della primavera nell'aria è necessario fermarsi, ascoltare il vento e respirare l'aria a adsl ferma e smartphone chiuso.

Qui, se vi va di leggerlo, un pezzo da Vandana Shiva, datato ma sempre attuale sul tema delle risorse idriche, le dighe e l'impoverimento materiale e spirituale del business mondiale sull'acqua